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Chaosmografie II. Teleologia | Æsth-etica
di Jacopo Valli






Fragilità e impermanenza


Ma fêlure est un ami
aux yeux de vin fin
(Georges Bataille)

In Simone Weil, «La compassione per la fragilità è sempre legata all’amore per la vera bellezza, perché sentiamo intensamente che alle cose veramente belle dovrebbe essere assicurata un’esistenza eterna e che così non è».

Al di là del risentimento, del rimorso e d’ogni possibile, limitante apollinea deriva: se non fosse compassione? Se questa fragilità non fosse tale nei termini d’una precarietà esile rispetto alla forma gloriosa e stabile? Se potesse la vera (uh!) bellezza puntualmente dimorare nella fragilità, però intesa come impermanenza (अनित्य)? Se la compassione non fosse tale, se non in un senso più etimologicamente originario, come riconoscimento, tale che ogni sfiorente fosse specchio di quello sfiorire che noi siamo (che noi È)?

Un riconoscimento [troppo] spesso non cosciente, benché esteticamente percepito, ove l’estetica originariamente afferisce alla percezione. Riconoscimento che può tradursi in intuizione (razionale), e in un piacere del conoscere (sgominando prosperi, caramellosi irrazionalismi prêt-à-porter: ragionar è già anche sentir) ricordante la gaia co-scienza della Vanità del Tutto nel Leopardi dello Zibaldone.

Rimane ora da considerare che non si dà mai un tutto, e che se è vero ch’ogni cosa (modo) è già pure le altre, ontologicamente, al di là dell’aristotelico Principio di Non Contraddizione, è pur vero che, con Merleau-Ponty, non vediamo che ciò che guardiamo. Codesta parzialità mai portabile a compimento, a totalità che darsi non può, garantisce — mi pare — una certa imperfezione (già perfetta, spinozianamente; non limitante per accanita smania d’Apollo: secondo Renard, «Le parfait est toujours un peu médiocre») riferibile precisamente alla fragilità più su argomentata, nonché la possibilità di esperire la propria esistenza — ossia il proprio vivere, ch’è morire — come evento estetico individuale, di cui il gusto è tratto, ovvero, stile (pur ancorché prossimo ai romantici camuffamenti dell’Uno denunziati da Alexander Dorner); corporale firma del freudiano fanciullo giocattolante.


Geometric Horsehair, Untitled, 2013



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